Era una calda domenica di agosto e nella piccola chiesa di paese le parole del nostro amato parroco, Giusto, echeggiavano sulle pareti umide e fresche. La tradizionale messa in latino, parole vuote per alcuni troppo presi a confidarsi gli ultimi avvenimenti della settimana e per altri che invece dovevano squadrare i compaesani per sapere cosa avessero indosso. Insomma, tolti pochi fedeli, la messa per gli abitanti del Paese dell’Uva era tutto fuorché un’occasione di preghiera!
Eppure non andarci equivaleva ad una scomunica.
Scrutai intorno a me nella remota speranza di vedere Andrea, magari negli ultimi banchi, o in piedi nei corridoi laterali, ma niente. Era passata tutta la settimana da quando l’avevo incrociato a casa di zia Giuditta e da allora non ero più riuscita a trovare una scusa per andare da lui. La domenica era giornata di riposo e papà era solito stare a casa in mia compagnia perciò men che meno avrei potuto sganciarmi. Sarebbe stata una giornata lunga, lunghissima!
Di ritorno dalla comunione vidi zia Giuditta seduta nei primi banchi e le feci un cenno di saluto mentre inghiottivo l’ostia. Lei ricambiò. ― La messa è finita, andate in pace ― disse il parroco e lentamente uscimmo tutti sul sagrato, come un gregge di pecorelle obbedienti.
Papà ed io, ci stavamo dirigendo verso il calesse, quando ci trovammo accanto Giuditta come spuntata dal nulla. ― Ciao Bartolomeo, ciao Amalia! ― esclamò con voce argentina. Rispondemmo al saluto.
― Pensavo … ― disse ancora lei ― che ne direste di venire a pranzo da me? Potremmo trascorrere il pomeriggio insieme, abbiamo tante cose da dirci! Se non avete niente di meglio da fare, s’intende! ―
Papà mi lanciò un’occhiata per capire cosa ne pensassi e poi rispose repentinamente per entrambi ― cara Giuditta accettiamo molto volentieri. Ti darei un passaggio ma sul calesse c’è posto solo per due ―
Fu in quel momento che mi balenò l’idea: ― ascolta papà, io preferirei andare a casa, è da stamattina che ho un po’ di mal di testa e credo che una bella dormita mi farebbe bene ―
― Certo! ― disse papà premuroso ― Giuditta, non ti dispiace se facciamo per un’altra volta, vero? ―
Accidenti a papà, pensai, lui e le sue premure stavano cominciando a soffocarmi!
― Ma no papà, non è il caso che ti preoccupi per così poco, vai pure con zia, hai diritto anche tu a passarti una giornata di svago ogni tanto! Io sto bene, anzi, starò anche meglio senza di te ― dissi scherzosamente. Papà era sul punto di offendersi ma zia Giuditta, che non era stupida, mi venne inaspettatamente in aiuto (anche se non lo meritavo per il modo in cui l’avevo liquidata giorni prima).
― Caro fratello, sono malesseri da donne e tu non puoi farci proprio nulla. E poi è grande abbastanza per badare a se stessa, lasciale un po’ di spazio! ―
E prese posto sul calesse. Papà rimase interdetto, ma non poteva mica farla scendere. Diavolo di donna! Pensò, adesso capisco perché nessuno ha voluto prenderla in moglie. Dopo le ultime raccomandazioni, prese la via per il centro e io mi incamminai verso casa a passo lesto. Ce l’avevo fatta!
Dovevo solo arrivare a casa, prendere Laika e andare al fiume.
Quel giorno misi le ali ai piedi! La strada che di solito percorrevo in mezzora, me la divorai in poco meno di 20 minuti. Una volta a casa, indossai qualcosa di comodo, presi il vestito della mamma di Andrea dal baule in soffitta, sellai Laika e la spronai al galoppo attraverso vigne ripide e prati assolati. Giunta al bosco rallentai la corsa per godermi la frescura dei grandi castagni e dare un po’ di tregua a Laika che era tutta sudata.
Ero eccitata all’idea di incontrare di nuovo Andrea e non vedevo l’ora di superare gli ultimi metri che mi separavano dalla sua casa …
Eccola finalmente! Scesi da cavallo e, attraversato il cortile di corsa, bussai alla sua porta. L’ansia mi toglieva il respiro mentre aspettavo che lui venisse ad aprire. Ma ben presto mi resi conto che non c’era nessuno. Provai a spiare dalle finestre, all’interno tutto taceva.
Accidenti! Avevo faticato tanto per riuscire a rubare quelle poche ore di libertà e lui non c’era. Non potevo crederci. E adesso? Cosa potevo fare? Non avevo nemmeno idea di dove andare a cercarlo.
Sconsolata, mi afflosciai sui gradini davanti alla porta e Laika, che sembrava aver percepito la mia delusione, si avvicinò e mi spinse con il muso come per dirmi ― Dai, non te la prendere ―
Ma certo, Laika aveva ragione!
C’era un sole splendido, faceva caldo e l’acqua del fiume era così limpida che sarebbe stato un peccato non approfittarne per un bel bagno.
Decisi che mi sarei goduta quell’attimo perfetto anche se il destino si era messo di traverso.
Guadagnata la riva, mi guardai ancora una volta intorno, ero sola. Sfilai i vestiti e le scarpe e rimasta in sottoveste, mi addentrai nell’acqua cheta, dapprima a piedi e poi a nuoto. A dir la verità non è che sapessi proprio nuotare, più che altro stavo a galla, sempre pronta a toccare con un piede il fondo.
Mi sentivo libera e leggera. L’acqua fresca mi accarezzava la pelle e si infilava tra i capelli facendoli danzare sulla superficie. Mi abbandonai completamente al dondolio dei flutti in una pace senza tempo.
D’un tratto uno spruzzo inatteso mi sommerse, io annaspai e nel cercare di ritrovare l’equilibrio, l’acqua mi entrò in bocca e su per il naso. Mi sembrò di soffocare e cominciai a tossire per espellere l’acqua ingurgitata. Ero così presa a lottare per la mia sopravvivenza che non mi accorsi di cosa avesse causato quell’onda anomala!
Andrea, a torso nudo, la pelle scura, cotta dal sole, era dietro di me e se la rideva a crepapelle. ― Se vi prendo … ― esclamai adirata. Mi avventai su lui e lo spinsi con la testa sott’acqua. Lui si divincolò, mi prese le braccia e le bloccò in una stretta vigorosa. Era troppo forte per me, dovevo agire d’astuzia.
Mi lasciai andare facendogli credere di aver vinto. Quando sentii allentarsi la presa gli assestai un morso sul braccio e, prima che potesse reagire, scivolai fuori dall’acqua.
Andrea era evidentemente sorpreso ma con un balzo fu su di me e mi atterrò sulla sabbia del greto. Ci rotolammo in una lotta senza vinti e vincitori. Si, perché la disputa era diventata un gioco e ci stavamo divertendo un mondo. Sporchi di sabbia da capo a piedi, ci tuffammo di nuovo nel fiume per sciacquarci e poi restammo ancora a lungo a giocare come due bambini.
― Basta, io esco ― dissi esausta e infreddolita. Sedetti sul prato, avevo piedi e mani lividi, ma non mi ero mai divertita così tanto. La sottoveste bagnata lasciava poco all’immaginazione e lo sguardo di Andrea mi mise improvvisamente a disagio.
I giochi erano finiti e noi non eravamo più dei bambini.
Afferrai i vestiti che avevo lasciato sulla riva nel tentativo di coprirmi. Lui si avvicinò, mi prese tra le sue braccia e mi baciò teneramente sulla fronte.