La pentola a pressione sbuffava allegramente e il profumo di arrosto si spandeva in tutta la casa. Era una fresca mattina di gennaio inondata di sole che neanche pareva inverno!
Grandi preparativi fervevano per l’invito a pranzo dei miei consuoceri. Un vero e proprio evento, visto che dopo tanti “tira e molla”, questa era la prima volta che venivano a casa.
La nostra era una casa “vissuta”, pulita – per quanto possibile con un micione peloso – di quel disordine accogliente che ti fa sentire vivo e impaziente di intraprendere un nuovo progetto – un “work in progress” per i tanti hobby miei e di mio marito.
La macchina da cucire perennemente aperta per il lavoretto di turno. Il cesto dei gomitoli di lana ai piedi del divano per l’uncinetto serale. Una stanza-laboratorio dove si lavorava il legno, l’alluminio o il vetro con la stessa disinvoltura con cui si cambia un asciugamano. I computer sempre accesi, pronti per vedere l’episodio di una serie su Netflix, esprimere una preferenza sulla piattaforma del MS5, sbrigare pratiche on-line, scrivere un nuovo post sul blog o chissà quale altra diavoleria.
Ecco, questo era il nostro ideale di casa, sempre pronta ad assecondare l’ispirazione del momento!
Così, dopo alcuni giorni spesi a trasformare il nostro “campo di battaglia” in una casa decorosa, era giunta l’ora di mettere in piedi un menu sbalorditivo: vitello tonnato; agnolotti con sugo di arrosto; hamburger tritati e farciti in casa, da servire con purea e carciofi gratinati; ananas caramellato con salsa all’arancia e torta di mele rovesciata.
Ormai il tempo stringeva perché l’indomani era il gran giorno, ma si era fatta sera nella migliore delle previsioni: ero esausta ma soddisfatta …
… All’altro capo della città, in una camera avvolta nella penombra, un uomo e una donna avanti negli anni, si stringevano la mano. Lui nel suo letto attrezzato per la lunga malattia, paralizzato per metà, con le gambe piegate e un pugno chiuso, volgeva alla sua donna seduta accanto a lui, deboli sorrisi senza poter proferire parola perché l’ictus gli aveva tolto anche quella. Non aveva voglia di scriverle i suoi pensieri com’era solito fare da quando era rimasto muto, era troppo stanco. Anche lei era tanto stanca, due anni di quella vita pesavano sulle sue fragili spalle come un macigno. E non erano tanto le cure quotidiane a pesarle, quanto l’assistere al lento declino del suo uomo, che fino a due anni prima, con il volto abbronzato e compiaciuto, era intento a potare i suoi amati ulivi, incurante della fatica.
Eppure, tutto passa, ora erano tutti e due lì assorti, ciascuno nei propri ricordi, scanditi dal ticchettio della vecchia sveglia da comodino, quella che era stata del nonno, prima di loro. Il respiro dell’uomo si fece più leggero, quasi impercettibile. Lei pensò che avesse preso sonno. Lentamente sfilò la mano dalla sua, che ricadde inerte sulla coperta.
Il cuore prese a batterle forte per quell’atroce sospetto che mai avrebbe voluto accettare. Si alzò in piedi e lo scosse con delicatezza, ancora nulla – Gino – bisbigliò con un filo di voce, ma lui se n’era andato, senza far rumore, com’era nel suo stile. Quella sera di gennaio, mio padre era morto.